«Il re è nudo!»: così grida il bambino della fiaba I vestiti nuovi dell'imperatore di Hans Christian Andersen rompendo l'incantesimo collettivo fondato su stoffe invisibili e reciproca suggestione. Ma lui no, lui "vede". E quello che osserva gli piace e lo mette a disagio allo stesso tempo, in un gioco di chiaroscuri in cui sono l'ansia di piacere agli altri e l'umana curiosità a muovere le relazioni sociali tra individui. «Il re è nudo!», d'altronde, potrebbe essere anche una frase di noi spettatori all'indomani di una nuova intervista-verità, dell'ennesimo titolo strappa click estrapolato da una dichiarazione - statement, lo chiamerebbero gli americani - venuta a galla durante una chiacchierata televisiva nell'incontro/scontro tra intervistatore e intervistato.

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Elisabetta A. Villa//Getty Images
Mara Venier a Domenica In

Belve, Che tempo che fa, Verissimo e il seppur ibrido Domenica In, giusto per citare i più popolari del momento, fondano il loro potere su una triangolazione che non patisce flop: da un lato c'è il personaggio noto che accetta di mettersi a nudo come il nostro imperatore, pur conscio dei rischi mediatici di questo disvelamento. Dall'altro il pubblico che sonda, giudica, assolve, vittimizza, scava e commenta. In mezzo l'intervistatore, che a seconda dello stile del programma che è chiamato a guidare incalza, consola, empatizza, critica, ascolta. Questa dinamica non è mai cambiata da quando la tv è diventata un mezzo di comunicazione di massa anche nel nostro paese, ma di certo si è evoluta negli ultimi decenni facendosi riflesso della cultura e del costume nostrano.

Breve storia del talk show: in principio fu Maurizio Costanzo

Il talk show ha un animo antico, quasi ancestrale: i primitivi si riunivano intorno al fuoco per disquisire della loro quotidianità, gli americani negli anni Settanta hanno acceso le telecamere per immortalare ogni sbalzo emotivo frutto dell'interazione tra due individui. In Italia, neanche a dirlo, è stato Maurizio Costanzo a inventare la moderna sintassi del talk show e dell'intervista che ancora oggi è punto di riferimento di molti suoi colleghi. Con Bontà Loro prima (siamo alla fine degli anni Settanta, il format quotava proprio i grandi modelli televisivi statunitensi) e poi con il celeberrimo Maurizio Costanzo Show (ben 42 edizioni andate in onda tra il 1982 e il 2009 e poi dal 2015 al 2022), il giornalista ha costruito un format in cui gli ospiti di ogni puntata - pornostar e politici, pentiti di mafia e star del cinema: dalla sua arena sono passati tutti, senza distinzione di classe, passato o genere - venivano chiamati a confrontarsi su temi d'attualità e questioni squisitamente personali.

Costanzo riusciva a far parlare tutti, anche quelli meno propensi a farsi intervistare. Sapeva tallonare con tenacia e lasciar perdere a seconda dei casi. Parlava con i silenzi, riusciva a soppesare con maestria l'animo trash e l'umanità del suo ospite. Faceva domande mirate, scomode ma mai offensive. A lungo il Maurizio Costanzo Show ha raccontato l'Italia, si è fatto carico della narrazione popolare, dei desideri del pubblico, delle confessioni dei suoi intervistati.

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Ernesto Ruscio//Getty Images
Maurizio Costanzo ha riportato in vita il suo Show nel 2015 dopo diversi anni di pausa

Con Maurizio Costanzo l'intervista per la prima volta si è fatta salotto, spazio intimo, angolo sicuro: una formula oggi sfruttata da molti colleghi, in tv e soprattutto nei video podcast di intrattenimento di ultimissima generazione come BSMT di Gianluca Gazzoli. Programmi in cui, tazza di caffè in mano e linguaggio informale, l'ospite si sente libero di essere se stesso in un contesto che gli somiglia, somiglia a chi lo intervista e soprattutto a chi lo ascolta da casa.

Il salotto televisivo come spazio sicuro, al grido di «Si faccia una domanda e si dia una risposta»

Se Costanzo ha dato una direzione ai talk show tradizionali, Gigi Marzullo con Sottovoce (in onda dal 1989 sulla Rai) ha reso celebre un altro filone: quello delle interviste a tarda notte quando tutto è concesso, il tono si abbassa, il flusso di pensieri si intensifica e i segreti dell'intervistato vengono fuori con più facilità. Le domande di Marzullo cadenzano un ritmo quasi psicanalitico («Ci si innamora con il cuore o con la mente?» o ancora «Lei ha paura della solitudine?», fino al criptico «Si sente più figlio o più padre della sua vita?»), le risposte sono senza veli, ambigue e profonde.

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Il giornalista Gigi Marzullo

Il modello Marzullo è irreplicabile perché cucito addosso al conduttore, ma in epoca recente sia Francesca Fagnani con il suo Belve in tv (che ha sempre lo stesso leitmotiv iniziale: «Lei che belva si sente?», che poi si sviluppa su più piani narrativi nel corso dell'intervista) sia Luca Casadei nel suo podcast One more time («Sei stato abbracciato e coccolato abbastanza da piccolo?», è una delle domande ricorrenti dell'intervistatore ai suoi ospiti) hanno provato a ricreare nelle loro trasmissioni quella stessa atmosfera di intimità. Con lo stesso scopo, far aprire il più possibile la celebrità intervistata, ma con metodologie differenti.

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Daria Bignardi ha ispirato molti colleghi con le sue interviste barbariche

Fagnani - che come stile giornalistico ricalca più il modello di Franca Leosini in Storie Maledette e di Daria Bignardi ne Le invasioni barbariche - mantiene un approccio informale senza mai accorciare la distanza con chi le sta davanti, e il "lei" usato con tutti gli ospiti ne è la prova: lo fa per trasferire all'ospite una sensazione di pericolo imminente, così che questo possa giocare in attacco e rispondere per le rime alle domande graffianti della giornalista. Casadei invece punta ad accogliere, ascoltare e far sentire compreso chi ha davanti così da porre l'accento sulle emozioni, le paure, gli irrisolti dell'intervistato e creare un ponte con il pubblico in ascolto. In Sottovoce, Marzullo riesce a tenere perfettamente in bilico queste due sfere, irrazionale ed emotivo, lucido e analitico: le sue domande, diventate oggetto dei meme più amati del costume italiano, nascondono una capacità di sondare l'animo umano che ha fatto scuola. Un filone che è diventato preponderante soprattutto dopo la pandemia. Da quando, cioè, abbiamo ammesso ad alta voce di poter fallire, cadere, soffrire. E abbiamo sdoganato la psicoterapia.

L'intervistato si mette in gioco: Very Victoria e la generazione MTV

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Victoria Cabello nel suo show Victor Victoria

Nei primi anni Duemila, oltre a Le invasioni barbariche, Parla con Me di Serena Dandini e Che tempo che fa di Fabio Fazio, programmi che mettono l'arte dell'intervista al servizio dell'attualità e della politica, sulla tv italiana arrivano talk show evidentemente indirizzati a un pubblico più giovane: volti noti di MTV come Victoria Cabello (con Very Victoria dal 2005 al 2008, poi diventato Victor Victoria con il passaggio su La7 per 4 edizioni dal 2010) trasformano l'intervista in un momento videoludico, sul modello dei grandi late show americani. L'ospite si mette al servizio del programma, delle co-conduttrici - nel caso di Cabello Geppi Cucciari e Virginia Raffaele - e del pubblico ridendo di sé, dei suoi limiti e dei suoi errori. L'empatia con gli spettatori si crea grazie a questa dimostrata umiltà, a questa capacità di mettersi in gioco. Su questa falsariga fioriranno poi format come l'intervista doppia de Le Iene in cui due celebrità, meglio se legate sentimentalmente o professionalmente, devono rispondere a un fuoco di fila di domande uguali, Il Testimone di Pif e i più recenti esercizi editoriali di Alessandro Cattelan, su tutti E poi c'è Cattelan su Rai 2 e il podcast Supernova.

Le sfere di Barbara D'Urso, Il Senso della vita di Paolo Bonolis: mostrarsi fragili è vincente

Non si può parlare di talk show senza citare le sfere di Barbara D'Urso (nel programma di prima serata Live Non è la D'Urso in onda su Canale 5 dal 2019 al 2021), le interviste di Silvia Toffanin che dal 2006 è alla guida del format Verissimo e quelle di Mara Venier a Domenica In. Insomma, senza parlare di emotainment. Oggi un certo segmento di pubblico vuole, anzi, no, pretende, che l'ospite mostri apertamente il suo dolore e le sue fragilità, che si lasci andare all'onda dei ricordi con commozione. Dalle celebrità pretendiamo lo stesso: nei programmi rivolti a un target anagrafico più adulto come quelli condotti da Toffanin e Venier si fa leva sui sentimenti senza però mai entrare nel merito o mettere a disagio l'ospite. Vengono poste domande poco scomode, che virano solo sugli argomenti preferiti dall'intervistato o su quelli del pubblico. Silvia Toffanin si serve di video emozionali, Barbara D'Urso nascondeva domande di gossip in alcune sfere per stuzzicare l'intervistato, Paolo Bonolis nel programma Il senso della vita (Canale 5, dal 2005 al 2008) sfruttava immagini evocative per arrivare al dunque e scavare in profondità nella vita degli ospiti.

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Pietro D'Aprano//Getty Images
Fabio Fazio conduce Che tempo che fa con grande successo su NOVE

Dimmi che intervistatore ti piace e ti dirò chi sei

I programmi di interviste sono polarizzanti come i loro ospiti o gli argomenti che trattano: indipendentemente dal genere (true crime, attualità, politico, spettacolo) è il conduttore a guidare la linea editoriale del programma, dunque ad attirare - o no - un certo tipo di pubblico. Difficilmente chi apprezza i quesiti garbati e lo stile galante di Fabio Fazio potrà amare quello più ambiguo di Francesca Fagnani. E chi ha amato l'informalità empatica ma anche iper-competente di Daria Bignardi nelle sue interviste barbariche non entrerà in sintonia con lo stile e il ritmo leggero e frizzante di format come BSMT di Gazzoli. Una cosa però è sicura: cambiano i volti della tv, cambiano gli stili, cambiamo persino noi spettatori, ma se i talk show fondati sulle interviste vis-à-vis non perdono smalto né pubblico è perché una cosa, dalla notte dei tempi, non è mai cambiata. Ovvero il desiderio di vedere e sapere, di scoprire che il re, appunto, è nudo. E che può fallire, cadere, amare, vincere e perdere come tutti.