Aprire un canale YouTube. Fare milioni di visualizzazioni su JazzTok. Pubblicare un EP per celebrare il divorzio. Sfidare i generi. Il vecchio modo di sfondare nel campo musicale è sorpassato. Come dimostrano queste musiciste dal mondo diventate virali, infrangere le regole paga.
(Foto di Adrienne Raquel. Styling di Byjan-Michael Quammie. Hair by Lacy Redway for Tresemmé; makeup by Alexandra French at Forward Artists; manicure by Natalie Minerva Forward Artists e Ginger Lopez at Opus Beauty; produced by Petty Cash Production.)
LAUFEY
Quando Laufey guarda i suoi fan dal palco, vede un pubblico pieno di «specchi» di se stessa. Sono divertenti, sono gentili, stringono amicizia con altri fan, alcuni persino le somigliano e vestono come lei. «Crescendo, ho fatto davvero fatica a trovare un gruppo di persone che davvero capissi e che davvero capisse me» spiega. «Il fatto di aver per certi versi evocato un pubblico di gente esattamente così rende profondamente felice la me ragazzina». È consapevole che le fan-base (la sua si chiama Lauvers) possono lasciarsi andare a comportamenti esagerati ma, ci dice, sebbene i suoi fan siano «per certi versi decisamente una setta, si tratta comunque di un culto positivo, felice e carino».
Figlia di padre islandese e madre cinese, Laufey Lín Jónsdóttir – questo il suo nome completo – è laureata a Berklee, suona il pianoforte, la chitarra, il violino e il violoncello, e usa la propria formazione come musicista jazz e classica per creare affascinanti composizioni pop. Ha attratto la Gen Z su TikTok e oltre; i fan montano video con le clip che la ritraggono assieme alla sorella gemella e direttrice creativa, Junia, e corrono in massa ai suoi concerti alla filarmonica. «Spero sempre che la mia musica apra una porta verso il jazz, che le persone arrivino a conoscerlo» afferma.
Lo scorso anno, Laufey ha vinto il suo primo Grammy (categoria Traditional Pop Vocal Album) per Bewitched, del 2023. Non sono mancate, però, le critiche da parte dei cultori del jazz, secondo i quali il suo lavoro non è fedele al genere e lei sfrutta questa forma d’arte. «Non potrebbe essere più lontano dal vero» ribatte Laufey. «Penso anche che queste opinioni siano dovute al fatto che sono una donna». All’inizio ha combattuto contro le critiche basate su presupposti errati, ma poi ha imparato a farsele scivolare addosso. «So quello che sono, e so in cosa sono brava, e questo mi basta» ci dice dalla sua casa di Los Angeles. «Alla fine dei conti, cosa sono i generi?» aggiunge. «Ho passato la vita a cercare di entrare in una categoria. Sono una musicista classica, una musicista jazz? Sono islandese? Sono cinese? Sono americana? Non sono mai riuscita a identificarmi in un’etichetta, quindi cerco di distanziarmene. Penso siano concetti superati».
I suoi fan hanno aiutato Laufey a trovare un senso di appartenenza. «Vedo soltanto una comunità di persone che avrei tanto voluto avere quando ero un po’ più giovane» spiega. Molti sono asiatici come lei, il che non è una coincidenza. «È un segnale forte e chiaro di come tutti abbiano bisogno di sentirsi rappresentati. Ci piace ritrovarci negli artisti che guardiamo da sotto il palco». Il suo prossimo disco, atteso per quest’anno, è un concept album su «una giovane donna che si svela» e sui suoi «pensieri più oscuri». Esplorerà il lato più caotico di Laufey, un aspetto che resta nascosto dietro gli abiti di Rodarte e i fiocchi di Sandy Liang. Ci saranno ancora elementi classici e jazz, ma con «suoni pop» più presenti e un mood «più estroverso». Dopo un’infanzia trascorsa a suonare musica classica per «un pubblico di anziani», Laufey è rimasta sbalordita quando, durante i suoi concerti, ha sentito voci giovani cantare con lei le sue canzoni. Adesso vuole davvero meritarselo: «Voglio fare musica che valga la pena essere cantata dal pubblico dal vivo».
(di Erica Gonzales)
SAMARA JOY
La musica scorre nelle vene di Samara. I suoi nonni hanno fondato un coro gospel a Philadelphia, The Savettes, e suo padre Antonio è bassista e cantante. Diventare una musicista professionista è sempre stato uno scenario realistico per lei, ma vincere cinque Grammy nel giro di quattro anni dalla laurea – tra cui quello nella categoria Best New Artist, che nel XXI secolo è stato conferito ad appena tre jazzisti, fra cui lei – è un grado di successo che pochi avrebbero potuto prevedere. Per molti giovani fan, la venticinquenne nativa del Bronx ha rappresentato l’iniziazione al jazz. Samara si è iscritta a TikTok più o meno nello stesso periodo in cui stava registrando il suo album di debutto, Samara Joy. Non si era mai fidata molto dei social, ma ha finito per cambiare idea quando ne ha capito le potenzialità in termini di pubblico che avrebbe potuto raggiungere. «Avevo paura che i miei contenuti potessero sembrare uguali a quelli di tutti gli altri, e pensavo: “Sto solo cantando davanti a una telecamera, come chiunque”» racconta. «Ma una volta che un po’ di estranei hanno iniziato a gravitare verso di me, mi sono detta: “Oh, cavolo, è incredibile”. E sento tuttora questo invisibile ma tangibile abbraccio della community».
È diventata ben presto una star del JazzTok, la community degli amanti del jazz di tutte le età che ha permesso di diffondere questo genere musicale tra i giovani. «Il mio angolino di Internet ha trovato persone che non avevano mai ascoltato il jazz» spiega. «Non sono sicura di come sia successo, ma sono grata che sia accaduto». Tra i suoi fan di alto profilo ci sono LaKeith Stanfield, Chaka Khan e Anita Baker. Lo scorso ottobre, Samara Joy ha pubblicato Portrait, il suo terzo album, che ha registrato in appena tre giorni e che, parole sue, le ha dato un nuovo senso di potere e creatività. «Questo album è diverso dai due precedenti, perché nel mezzo c’è stato un periodo nel quale ho sentito di dover prendere molte decisioni per me stessa, di dover crescere e difendere le mie idee». Sarà in tour con Portrait per tutta l’estate, mentre alla fine dello scorso anno si è esibita in 13 concerti con la sua famiglia per promuovere un album di canzoni natalizie. In questa occasione, si è unito a lei suo nonno, il 94enne Elder Goldwire McLendon (ormai in pensione, ma tornato sulle scene per cantare con la nipote), oltre che il padre, lo zio e alcuni cugini, tutti vocalist. «Le persone sono venute a vedere la mia famiglia esibirsi, ed è stato bellissimo, perché portano a casa un ricordo da condividere. Mio nonno sta avendo l’occasione di assistere a come il suo background è condiviso oggi, vedere che tutti noi amiamo la musica sin da quando lui e mia nonna ce l’hanno insegnata in chiesa e sapere che possiamo di nuovo fare musica tutti insieme nonostante le vicissitudini della vita». Samara Joy è grata a leggende della musica come Ella Fitzgerald e Sarah Vaughan per aver spianato la strada e per averle permesso di sperare nella propria carriera. «Non vorrei mai trovarmi a dire: “Okay, adesso che sono arrivata in vetta, non c’è altra meta da raggiungere. Perché, in realtà, c’è».
(Adrienne Gaffney)
TINI
C’è stato un momento in cui la star argentina del Latin-pop Martina “Tini” Stoessel era convinta che una principessa Disney dovesse sempre trattenere le lacrime. A partire dal 2012, l’allora quattordicenne Tini era la protagonista della serie Violetta di Disney Channel Latin America: il suo personaggio, Violetta Castillo, aveva aspirazioni da cantante pop proprio come quelle di Tini. Con i suoi rimandi ad Hannah Montana, la serie divenne un successo mondiale e la sua influenza varcò di parecchio i confini della nativa Buenos Aires. (Come ha scritto lo scorso gennaio su Twitter la cantante sudafricana Tyla: “Adoraaaaaaavo Violetta”.) Quando, nel 2015, è andata in onda l’ultima puntata della serie, Tini ha deciso che lanciare la propria carriera di cantante solista fosse il passo più naturale. «È stato semplice, perché ho seguito il cuore» spiega. «Quando è finita Violetta, ho sentito di voler continuare a fare quello che amavo, ma questa volta a modo mio».
Fare musica a modo suo significava evolvere, crescere e fare errori davanti a tutti. Nel decennio che è seguito, Tini ha costruito la propria carriera solista ed è diventata una delle più popolari musiciste dell’America Latina. Mentre sfornava un brano dopo l’altro, ha imparato a ignorare la propria salute mentale che andava peggiorando e ha indossato una maschera così convincente che per poco non si è davvero convinta di stare bene. La facciata è crollata però nel 2024, con la pubblicazione del suo sesto album in studio, Un Mechón de Pelo (Un ricciolo di capelli, ndr). Questa nuova musica – l’album “più personale” di sempre – non era una zuccherosa meditazione sull’amore per sé stessa, ma una saga introspettiva e sperimentale sull’isolamento e la depressione. In brani come Tinta 90 e Posta, confessa di essere «segretamente depressa» e una vittima della propria auto-illusione quando canta: «Una principessa non piange in tv / ma la mia recita era talmente credibile / che persino Tini ci è cascata, sul serio / Ma Martina si è svegliata, e ci tiene, ci tiene davvero».
Tini sa che i suoi fan non hanno il diritto di conoscere i dettagli privati della sua salute, ma ritiene di dover essere onesta con loro. Adesso, nonostante i bastian contrari – e ce ne sono parecchi, ammette – Tini guarda al futuro con l’obiettivo della «libertà assoluta». «In questo momento mi sto rendendo conto di chi sono e di dove sono, e sto cercando il punto di incontro fra la vita che avevo e la vita che voglio costruire» afferma. Da sei mesi sta registrando un altro album, uno che – ci spiega – nei ritmi, nei testi e nelle grafiche rispecchia la sua ricerca della libertà. Tini sta anche ideando un tour dedicato a tutta la sua carriera, che ricorda la sua personale versione di Eras di Taylor Swift. Nei prossimi mesi comparirà nella serie tv di Disney+ Quebranto, la prima dopo dieci anni.
E, a prescindere da cosa l’aspetta, è già in pace perché ha condiviso la propria verità con il mondo. «Poter trasformare le emozioni in musica ha fatto parte del mio processo di guarigione» dice, «e credo che condividerle sia stato altrettanto risolutivo».
(Lauren Puckett-Pope)
MADISON BEER
Madison Beer è pronta a sfornare qualche altra hit da urlo. La ventiseienne cantante pop e social media star ha trascorso gli ultimi anni a mettere i puntini sulle i, pubblicando canzoni che, con il tono di un diario, raccontavano il dietro le quinte della sua vertiginosa ascesa. Adesso che ha esorcizzato e ben documentato il passato, non vede l’ora di divertirsi un po’.
Beer era solo una tredicenne di Long Island quando Justin Bieber ha pubblicato su Twitter il link della sua cover di At Last di Etta James. Poco dopo Beer è stata messa sotto contratto dalla Island Records e ha iniziato a lavorare con l’allora manager di Bieber, Scooter Braun. Questi eventi, però, non si sono limitati a cambiarle la vita, ma l’hanno anche messa sotto la luce implacabile dei riflettori. La sua fama improvvisa, e l’attenzione derivatale dai legami con diversi musicisti di alto profilo, l’ha resa un bersaglio del cyber-bullismo. Quando aveva 15 anni, un video intimo che aveva mandato a un amico venne postato online e, anziché difendere il suo diritto alla privacy, i troll hanno incolpato lei di aver registrato quelle immagini. A 16 anni è stata scaricata dalla sua etichetta e dal suo manager. «Sono sempre stata trattata da adulta» dice adesso, «e mentre io cercavo di capire come diventare una persona, dovevo rendere conto a tutta Internet».
Ha raccontato la sua versione dei fatti nel suo memoir del 2023, The Half of It, e nel suo secondo album, Silence Between Songs, pubblicato nello stesso anno, in cui racconta nel dettaglio il rapido deterioramento della sua salute mentale, di come abbia pensato al suicidio e di come alla fine si sia ripresa. «C’erano cose che volevo dire, temi importanti per me» riflette: «Sento di esserci davvero riuscita». Si è imbarcata in un tour mondiale di 63 tappe, facendo il sold out persino in posti come la Radio City Music Hall.
Oggi, avendo ripreso il controllo della sua storia, la potenza vocale suona più libera. I due singoli del 2024, Make You Mine e 15 Minutes, sono tormentoni perfetti per i locali, tanto che il primo le è valso la nomination ai Grammy per il Best Dance Pop Recording. Beer è stata in studio quasi ogni giorno a lavorare al suo prossimo album, uno che – ci dice – sta ancora prendendo forma, ma «ha ottime premesse». In parte è stata ispirata da uno dei suoi hobby preferiti: i videogame. «Voglio che il mio album abbia un sacco di suoni e rumori interessanti, cose che magari non si sentono spesso nella musica».
Il nuovo disco potrebbe aiutare Beer a spuntare le ultime caselline della lista della sua carriera (a partire da un concerto al Madison Square Garden e a continuare con il vincere un Grammy), ma afferma che i suoi obiettivi non le tolgono il sonno. «Sono molto orgogliosa del punto in cui sono arrivata» conclude, «se la me ragazzina mi incontrasse oggi, direbbe: “Sei la donna più cool del mondo. Un giorno diventerò come te? Incredibile!”».
(Madison Feller)
KELSEA BALLERINI
C’è un detto nell’industria musicale: «Hai tutta la vita per scrivere il tuo primo album, e poi due giorni tra una data del tour e l’altra per produrre il secondo». Kelsea Ballerini pronuncia queste parole con me proprio mentre si trova in tournée. È nel backstage, infagottata da una felpa con cappuccio, alle sue spalle un appendiabiti pieno di costumi di scena e una chitarra bianca. È il giorno di San Valentino e, dopo aver spazzolato un donut ricoperto di zucchero rosa, si prende una pausa per parlare con me dell’anniversario del giorno che le ha cambiato la carriera.
Esattamente due anni prima, aveva pubblicato Rolling Up the Welcome Mat, un pungente EP con sei brani in cui – senza risparmiare i dettagli – fa la cronaca del divorzio da Morgan Evans, a sua volta musicista country. Per Ballerini, che è cresciuta in una famiglia religiosa del Tennessee, la sola idea di divorziare era un tabù, figuriamoci poi scrivere un album sul tema. «Non facevo che ripetermi: “Oddio, sono terrorizzata”. Andavo a dormire e la mattina dopo mi dicevo: “Oh, insomma, che vuoi che sia. La gente lo ascolterà e ci si identificherà”. Ma era pur sempre una sensazione spaventosa». Quell’album è stato anche uno spartiacque per Ballerini: fra il terreno esplicitamente autobiografico che stava esplorando e il boom del mercato della musica country, l’EP l’ha fatta conoscere a un pubblico del tutto nuovo.
Adesso, ai suoi concerti, ci sono fan che esibiscono cartelli con scritto: «Ho appena avuto il divorzio». Ballerini, però, vuole essere chiara: «Evito di festeggiare finché non sono certa che si tratta di qualcosa di positivo. Non voglio essere una testimonial del divorzio. Ormai sono passati tre anni e, per me, questo tema non occupa più il centro della scena».
In questo periodo, Ballerini ha una visione delle cose completamente diversa. La sua vita personale, ci spiega, è «irriconoscibile rispetto a un paio d’anni fa, e grazie a Dio». Dal 2022 ha una relazione con Chase Stokes, l’attore della serie tv Outer Banks; il suo album più recente, Patterns, è più strutturato e adulto e, in effetti, ne ha scritte alcune parti mentre era in tour. Brani come Sorry Mom, in cui si scusa con sua madre in modo molto adulto, e We Broke Up, la rassegnata storia di una separazione annunciata, sono terreni nuovi, dai quali trapela il percorso terapeutico della cantante.
Quest’estate farà finalmente una pausa, tanto meritata quanto necessaria. I piani per un nuovo album non si sono ancora concretizzati, ma, ci spiega: «Intendo mescolare di più i generi. L’idea mi entusiasma». Farebbe di tutto pur di lavorare con la cantautrice SZA. Lo scorso anno ha fatto una brevissima incursione nella recitazione, comparendo come guest star nella serie Doctor Odyssey e per questa stagione sarà tra i coach in The Voice. Ballerini ci racconta che, a Natale di qualche anno fa, era a cena con il suo manager e gli ha chiesto: «“Qual è il mio punto cieco? Dove posso migliorare?”. Al che lui mi ha risposto: “Devi smettere di comportarti come se fossi l’ultima arrivata”, quindi ho cercato di mostrarmi più orgogliosa del mio successo e di smettere di sminuirmi. Penso che questa sia una lezione per tutte le donne: essere autenticamente orgogliose dei nostri risultati».
(Véronique Hyland)