La Storia è davanti a noi: il Quirinale, il cortile, la stanza del Presidente, il porticato solenne, la vista sui giardini e la ripetuta noia di incontri istituzionali, presentazioni di accademie di danza – che qui per fortuna sconfinano grazie alla rapace visione del regista – la Prima della Scala, un dovere, i doveri.
Ma poiché Sorrentino è Sorrentino l’inizio di La Grazia è fiammeggiante, il Presidente della Repubblica, Toni Servillo, è già nel semestre bianco e la sua immagine si fonde con le frecce tricolore nelle cromie di fumo della bandiera italiana.
Vedovo inconsolabile di Aurora, ha una figlia giurista come lui, Dorotea, che lo assiste nel lavoro e funge da First Lady. Sì, esattamente come Mattarella o come Scalfaro, ma Servillo non è nessuno dei due, è Mariano De Santis.
Sarà però difficile che il film, intriso di dolore e grazia, e definito «una storia d’amore», oggi soprattutto non appaia anche per quel che è, una riflessione sul potere e i suoi rituali, benché meno duro del demoniaco Il Divo. Certamente più malinconico poiché qui c’è la ponderatezza dell’età, e di questo tratta il film: la fine di un mandato e dunque il timore e insieme l’attrazione del vuoto, il ritorno a casa, il peso del tradimento passato della moglie che non si riesce ad assorbire, l’affetto per la figlia che, altra generazione, preme per firmare la proposta di legge sull’eutanasia.
Assorto nei suoi pensieri, che non sono i sogni che avrebbe voluto fare, il Presidente si chiede “di chi sono i nostri giorni?” e come noi si commuove nel vedere, in collegamento, il comandante in orbita nella navicella spaziale galleggiare in assenza di gravità mentre una sua lacrima scivola lontana, s’appallottola dentro l’abitacolo e noi, proprio come Servillo, cerchiamo di afferrarla.
La firma sulla legge e le due domande di Grazia per due casi diversi di violenza famigliare sono gli ultimi compiti e il Presidente sceglierà non in base alla certezza o alle petizioni popolari, ma in base al dubbio che, solo, conduce forse alla verità.
Spezzato dalle rappate di Guè Pequeno, prediletto del Presidente che lo farà cavaliere, e dai cori nostalgici e patriottici degli alpini a cui si unisce la voce del protagonista, il film contempla un Papa nero che fornirà a Mariano la più amara sintesi, ma anche la più schietta, sul passato, la vecchiaia e il futuro di inesorabile declino.
Lo sguardo perplesso, ora corrusco, ora commosso, di Servillo è pietra preziosa e dà fisicità alle lentezze riflessive della seconda parte: un attore meraviglioso. Perfetta, nel ruolo tutto chemisier bon ton e anima ribelle, Anna Ferzetti e una citazione a sé merita Milvia Marigliano che nella parte di Coco, l’amica di una vita del Presidente, carattere spiccio e un segreto da mantenere, trafigge il cuore dello spettatore.
Mirabile il racconto del rientro alla vita normale, nella casa borghese lasciata per il settennato, con gli interruttori vecchi da rifare, l’immensa cabina armadio, piena di colori, che fu della moglie e lo spazio ridotto della cucina non ammodernata dove mangiare un brodo.
Finalmente leggero, in assenza di gravità.