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Germania, anni Settanta. Juliane milita in un giornale femminista, Marianne, sua sorella, abbraccia la strada della lotta armata, finendo apparentemente suicida in carcere. Il loro è un rapporto di amore e odio raccontato sul grande schermo da Margarethe von Trotta, regista tedesca che per il suo Anni di piombo uscito nel 1981 si ispirò alla storia vera delle sorelle Christiane e Gudrun Esslin, confezionando, come scrisse il critico Paolo Mereghetti nel suo Dizionario dei Film 2008, “un tentativo, più esistenziale che politico, di ricostruire un periodo tragico della storia tedesca, letto senza retorica e col rigore morale di chi vuole andare oltre la verità mostrata”. Con questa pellicola la sua autrice fu la prima donna a conquistare l’ambito Leone d’Oro alla 38esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, avventurandosi in un terreno periglioso come quello del terrorismo e facendo conoscere al pubblico italiano la voce potente di una cineasta berlinese dopo quella della leggendaria regista e fotografa del Terzo Reich Leni Riefenstahl. Come si sentì in quel momento, lo raccontò qualche tempo fa la stessa von Trotta al Quotidiano Nazionale: “Quando ricevetti il Leone d’oro a Venezia, nel 1981, appena scesa dal palco mi intervistò Isabella Rossellini. Mi disse: sa che è la prima regista tedesca a ricevere un premio, dopo Leni Riefenstahl? In effetti, aveva vinto nel 1938 la coppa Mussolini, per Olimpia. Mi sentii addosso una grande responsabilità: quarant’anni dopo la regista del nazismo, potevo portare un altro pensiero. Un pensiero nuovo. Voltare pagina”.
Un momento prezioso e il riconoscimento massimo del più antico festival cinematografico al mondo che Margarethe von Trotta accolse indossando una divisa semplicissima. Lo scatto in bianco e nero dell’epoca ce la restituisce infatti sorridente tra le protagoniste del suo film – Barbara Sukova e Jutta Lampe –, e il produttore Eberhard Junkersdorf; con una giacca/blusa dall’abbottonatura centrale e una gonna ariosa in bianco candido, dei segni ricamati tra il geometrico e l’astratto, e una lunga collana ad appoggiarsi sul décolleté. Un look raffinato, senza fronzoli né orpelli, nonostante gli Ottanta di una moda ben più eccentrica e colorata, e una tenuta del resto non dissimile dalle altre che la regista sfoggiò in quei giorni al Lido. Sempre con la collana con pendente/amuleto, in blouson in pelle e abito morbido davanti alla locandina del suo film, o in jeans e camicia dolcemente sbuffante impegnata in una conversazione su una terrazza veneziana.
E dire, appunto, che erano gli anni delle super-spalle e del massimalismo, dei corpi scultorei ed esibiti, delle tinte sgargianti e dei dettagli stravaganti, delle pettinature imponenti, degli accessori audaci e dell’abito da manager dalle silhouette marcate ad esprimere potere e sicurezza. Un’imponenza che non apparteneva a Margarethe von Trotta e il suo stile a Venezia era specchio fedele di quello che poi sarebbe stato anche il suo linguaggio. “Il cinema politico ma non ideologico di Margarethe von Trotta ci riporta uno sguardo sul mondo pieno di fascino e di emozioni, ma non strappalacrime – ha scritto infatti la sceneggiatrice e scrittrice Pina Mandolfo in occasione della proiezione livornese dell’ultimo film della regista Ingeborg Bachmann. A journey into the desert –. Un cinema, il suo, che non cede alla spettacolarità della poetica degli eroi, nonostante le sue personagge siano esse stesse figure eroiche sia che vivano all’angolo di cottura o agiscano tra i fasti della storia”.
Ed ecco allora che si spiega quel look, così normale, così lontano anni luce dallo sfarzo con il quale siamo abituati a leggere gli abiti che si avvicendano ogni anno sul red carpet lagunare. Una blusa e una gonna dai ricami accennati. Stop. Tanto, a fare la storia, ci pensò il suo potentissimo film.