Georg Simmel, sociologo tedesco che alla moda dedicò un libretto nel 1910 dandole un ruolo da protagonista nello spettacolo della modernità, così si esprimeva sulla rapidità con la quale le tendenze si avvicenda(vano) al suo tempo: “…quanto più nervosa è un’epoca, tanto più rapidamente cambieranno le sue mode”.

Chissà come leggerebbe un presente di voghe mordi e fuggi, aizzate da una pletora di (a volte) incomprensibili micro-trend, validi il tempo di uno scroll sul social preferito. O chissà ancora che significato sociologico attribuirebbe alla sovrabbondanza di collezioni, tra main e pre-fall, crociere, capsule e collabo, in un brulicare di narrazioni più che di emozioni che quasi nessuno può più permettersi, con inevitabile deriva verso una fast fashion di cui sono ormai note le tragiche conseguenze. Del resto, è tutto semplicissimo, e lasciarsi ingolosire dalla tendenza must di stagione costa un click e, nel caso della moda veloce, pochi euro. Si acquista d’impulso; uno, due, tre capi o più, tanto c’è il reso che macina chilometri per il globo seminando CO2 – come dimostrarono nel 2024 Report e Greenpeace che ai pacchi misero un localizzatore GPS – ma nessuno, o quasi, lo vede.

Fast fashion: il costo nascosto di un clic

McKinsey & Company, in un articolo del gennaio 2025 dal titolo What is fast fashion? lo dice chiaro: le persone acquistano più vestiti che mai ed entro il 2030 si prevede che il consumo di abbigliamento aumenterà del 63% raggiungendo un volume di 102 milioni di tonnellate. Sempre la società di consulenza riporta di come, nel 2024, tra il 20 e il 30% dei capi acquistati online, nonché 2 su 10 di quelli comperati in negozio, siano stati restituiti. Ricondizionati? Difficile, visti i costi del rimetterli a nuovo. Più probabile siano finiti in discarica anche perché, per quanto riguarda i resi della fast fashion, “la qualità della merce raccolta è talmente bassa dal renderla inadatta al recupero e al riuso”, come ha ben scritto Matteo Ward nel suo Fuorimoda!.



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L’Europa verso una moda circolare

L’impatto ambientale dei prodotti di moda è ciò che ha condotto la Commissione europea, nel 2022, a presentare una serie di norme in linea con l’ambizione del Green Deal di “rendere la crescita sostenibile, climaticamente neutra, efficiente dal punto di vista energetico e delle risorse e rispettosa della natura”.

Tra queste si colloca la volontà di introdurre la Responsabilità Estesa del Produttore (EPR) per la filiera dei prodotti tessili di abbigliamento, calzature, accessori, pelletteria e tessili per la casa. Una normativa che mira a rendere i produttori responsabili nella gestione dei propri prodotti anche nella fase post-consumo, cioè quando diventano rifiuti, corroborando un modello più sostenibile e circolare. Finora la regolamentazione è stata introdotta da Francia, Olanda e Svezia ma dovrebbe arrivare presto anche da noi poiché, proprio lo scorso 5 maggio, si è conclusa la consultazione pubblica aperta allo scopo di raccogliere osservazioni o eventuali riformulazioni da parte dei soggetti interessati alla normativa, la cui bozza è ora al vaglio del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica.

La si può leggere sul sito del MACE, dove vengono spiegate le finalità dell’EPR, ossia “prevenire e ridurre gli impatti ambientali derivanti dalla progettazione, dalla produzione e dalla gestione dei prodotti tessili al termine del loro utilizzo, rafforzando lungo tutta la catena del valore la prevenzione, la selezione, il riutilizzo, la riparazione, la preparazione per il riutilizzo e il riciclaggio” e le sue modalità di svolgimento con i produttori che, sulla base del peso e non del numero dei capi immessi sul mercato, dovranno versare un “contributo ambientale”, oltreché occuparsi della comunicazione, informazione e sensibilizzazione al consumatore finale, allo scopo di indirizzarlo verso scelte d’acquisto più consapevoli e incentivarlo nelle attività di riparazione e riutilizzo.

L’articolo 2, paragrafo 2 p, chiarisce anche chi saranno gli attori coinvolti nella normativa e proprio su questo punto risiede la specificità italiana che coinvolge nel regime dell’EPR non soltanto i produttori, cioè i retailer che immettono il prodotto sul mercato, ma anche, ad esempio, “i fabbricanti di materia prima o semilavorati destinati a prodotti tessili”.

Il caso italiano e il ruolo della filiera

“La bozza del decreto italiano dà in qualche modo una definizione di filiera tessile circolare, poiché menziona tutte le fasi; dalla produzione, alla raccolta, alla selezione, alla preparazione per il riciclo”, ci spiega infatti Silvia Gambi, giornalista, autrice della newsletter Solo Moda Sostenibile e del documentario Stracci, da anni impegnata nella divulgazione sul tema della sostenibilità. “La Francia, la prima ad aver adottato l’EPR e di fatto il paese da cui possiamo trarre le prime osservazioni sull’andamento della normativa, ha un consorzio che si chiama Refashion, ossia un’organizzazione governativa che si occupa di raccogliere l’eco-contributo dai produttori, dividendolo poi tra tutte le attività”, spiega ancora Gambi.

E quindi, cosa significa? “Significa che in Francia c’è un unico consorzio che gestisce la raccolta dei prodotti tessili e del calzaturiero a fine vita, tutto sostenuto dall’eco-contributo dei produttori. Anche in Italia i produttori restano obbligati all’EPR e all’iscrizione ai consorzi, ma all’interno di questi consorzi possono esserci anche attori che lavorano lungo tutta la filiera tessile, rendendo la materia prima usata raccolta, che ha un suo valore, di proprietà di più soggetti”.

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A proposito del materiale raccolto, la bozza italiana non specifica cosa si intenda esattamente per “rifiuto tessile” e quand’è che un capo debba essere considerato non più utilizzabile. “Questa è un’altra normativa in discussione adesso – racconta Silvia Gambi –, e cioè l’End of waste che dovrebbe proprio fare chiarezza su questo punto. Ma è una definizione molto complicata, perché non vanno considerate solo le qualità di un capo, se è macchiato o rotto e quindi inevitabilmente al suo fine vita, ma anche altri aspetti che lo rendono ad esempio non più appetibile per il mercato second-hand e quindi di fatto non più utilizzabile. Non è semplice, ma dovremmo avere presto la normativa con termini più puntuali”.

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Chi paga davvero il prezzo della sostenibilità?

Infine, la voce dei costi e se con l’EPR la spesa per gestire il fine vita dei prodotti tessili ricadrà sui produttori, viene da domandarsi se anche noi non pagheremo un sovrapprezzo. “Certo che è un costo che verrà assorbito dal consumatore – spiega Gambi –, ma si tratta di capire di che cifre poi si parlerà. Nell’esperienza francese, ad esempio, si va dai dieci centesimi ai due euro a seconda della complessità del capo. E poi è anche giusto a mio avviso che ci sia una presa di responsabilità da questo punto di vista. Ad oggi nessuno ha questi costi trasparenti in etichetta e la normativa italiana non dice nulla in merito. E anche su questo si potrebbe fare una riflessione”. Cioè? “Anche dal punto di vista educativo, avere i costi del contributo ambientale visibili, renderebbe tutti più coscienti”.

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Vedremo se l’EPR riuscirà a frenare i numeri enormi della sovrapproduzione e del sovraconsumo, ma di certo si tratta di un impegno significativo verso una moda sempre più sostenibile. “Abbiamo delle abitudini di consumo strane – conclude infatti Silvia Gambi – e un sistema che inevitabilmente invita a considerare i capi come usa e getta e parlare di questo tema, fare educazione creando consapevolezza, è molto importante, ci può rendere cittadini migliori”.