Tra le sfide che la moda si trova ad affrontare nel 2023 c'è quella della sostenibilità. Generando situazioni impreviste per l'ecosistema globale, nel 2022 è emerso in modo innegabile come il cambiamento climatico abbia effetti devastanti anche sulla moda e la necessità di una presa di posizione autentica, al di là dei tanti tentativi di greenwashing messi in atto dai brand di moda nell'ultimo decennio, si è fatta pressante. Come fare?
Moda e sostenibilità: come affronteranno la sfida i brand del lusso
Tra le aziende del lusso che di recente si sono aperte sulla questione c'è Kering, che ha annunciato come nuovo obiettivo quello di ridurre le emissioni dell'intera catena di approvvigionamento, per tutti i brand del Gruppo, del 40% entro il 2035. Per farlo, la direttrice delle sostenibilità Marie-Claire Daveu ha spiegato che sarà necessario monitorare le emissioni di ogni brand, controbilanciandole ove necessario con corrispettivi tagli su altri marchi o categorie merceologiche per far quadrare il conto complessivo. Se però questa e altre operazioni interessano "solo" i dipartimenti interni del Gruppo Kering, c'è anche un altro lato della medaglia che coinvolge i consumatori: ridurre drasticamente le emissioni significa, necessariamente, ridimensionare la produzione e per farlo senza andare in perdita l'unica soluzione è aumentare i prezzi. "In fin dei conti, anche i prezzi dovranno aumentare. La correlazione tra la crescita del business e la riduzione delle emissioni di gas serra sarà insita nel prezzo" ha confermato la stessa Daveu, mettendo a tacere le polemiche dietro le impennate dei prezzi di Balenciaga per la collezione Autunno Inverno 2023-24, appena presentata a Parigi e parzialmente già disponibile per il pre-ordine, che non erano sfuggite a nessuno.
L'annuncio d'altronde si inquadra bene nella direzione che il mondo del lusso sta prendendo per far fronte allo spettro della recessione (e in generale al 2023, che sarà un anno molto complicato): ovvero quello di focalizzarsi sulla ritenzione degli esistenti top client, perché saranno proprio i VIC a mantenere intatto il loro (elevatissimo) potere d'acquisto quando i clienti di fascia media inizieranno a mostrarsi più parsimoniosi, gli entry-level non si trasformeranno in clienti fidelizzati e i prospect (clienti potenziali) saranno costretti a desistere dal sogno di entrare a far parte dell'universo narrativo del loro marchio preferito perché inaccessibile. L'economia globale potrà anche crollare, ma gli ultra-ricchi continueranno ad arricchirsi ed è su di loro che le maison di lusso concentreranno gli sforzi, come attesta anche l'annuncio recente di Gucci dell'apertura di esclusivi salon dedicati ai top client in cui saranno disponibili solo prodotti di alta gamma. Che poi il lusso non dovrebbe essere tutto "di alta gamma"? Insomma, è chiaro che viviamo in una contraddizione costante. Naturalmente, di fronte a un incremento dei prezzi c'è (se non altro) la promessa più o meno implicita di un ulteriore miglioramento nella qualità dell'offerta – dal punto di vista di materiali e lavorazioni così come delle pratiche volte a rendere la produzione più sostenibile. "Sono convinto che la riduzione dell'impatto in termini assoluti combinata con la creazione di valore sia la nuova frontiera per le aziende veramente sostenibili" ha spiegato Francois-Henri Pinault accompagnando l'ultimo Sustainability Progress Report del marchio relativo al periodo 2020-2023. Ecco quindi che torna sotto i riflettori un'annosa questione: la sostenibilità è davvero appannaggio di tutti o resta ancorata a un'idea di privilegio?
Se perfino le stesse catene di fast fashion negli ultimi tempi hanno creato linee di prodotti nebulosamente "sostenibili" sentendosi in diritto di alzare i prezzi proprio proprio in virtù di quest'etichetta, il fatto che lo facciano anche i marchi del lusso – per altro in modo più trasparente e con la promessa concreta di ridurre l'impronta ambientale – non dovrebbe davvero stupirci. Senza contare che il lusso non è l'unica alternativa, come non lo sono i piccoli brand indipendenti che fanno della sostenibilità la loro missione primaria e hanno bisogno di alzare i prezzi per ricoprire i costi più elevati rispetto alle produzioni di massa o legati alle speciali tecnologie impiegate. Tendenzialmente, chiunque può fare scelte più sostenibili di altre in fase di acquisto, a prescindere dalla propria estrazione sociale, eppure i prezzi del lusso che salgono in nome della sostenibilità spesso, agli occhi delle masse, finiscono per giustificare l'acquisto compulsivo di alternative a basso costo e alto impatto umano e ambientale.
Democratizzazione della moda ed elitismo
Quello tra fast fashion e sostenibilità è un dibattito che va avanti da anni e che spesso prende la piega di uno scontro tra democratizzazione della moda ed elitismo. Il motivo è semplice: chi compra fast fashion viene spesso colpevolizzato, anche pubblicamente, sui social, per contribuire ad alimentare un sistema sbagliato e nocivo per l'ambiente; le stesse persone, sentendosi punte nel vivo, per difendersi incolpano i propri accusatori di classismo, di parlare partendo da una posizione privilegiata che non gli permette di vedere come per la maggioranza comprare fast fashion non sia uno sfizio, ma una necessità.
Come sempre, non esiste una verità assoluta. Certo è che, a prescindere dalla classe sociale cui si appartiene, il solo fatto di arrivare a considerare il fast fashion come "l'unica alternativa possibile" è una cartina tornasole di quanto sia sbagliata la mentalità predominante, per cui il bisogno primario dell'essere umano non è più solo vestirsi, ma vestirsi seguendo il ciclo vorticoso dei trend. Perché, parliamoci chiaro, se si parla di (vera) necessità, di alternative al fast fashion ce ne sono eccome, tra le più comuni lo shopping second hand, oggi molto più popolare, ma certo non in grado di competere con la reperibilità, la velocità e la capacità di ricreare i trend del momento delle varie catene di fast fashion. Se invece la necessità è seguire l'ultima tendenza, le cose cambiano e sì, H&M, Shein, Zara & Co. si fanno decisamente più indispensabili. Il problema è che negli ultimi vent'anni il fast fashion ha progressivamente aperto le porte alla moda democratica non solo permettendo a tutti di seguire le ultime tendenze, ma istigando nella collettività il sentirsi in diritto, quasi in dovere, di farlo.
Moda consapevole e Gen Z
La situazione appare ancora più controversa se si pensa che la Gen Z, che negli anni si è costruita un'auto-narrazione che la vuole una generazione molto più consapevole, responsabile e attenta a determinati valori ambientali rispetto alla precedente, è anche la stessa che in pochissimo tempo ha reso Shein il colosso che è oggi, che su TikTok si spreca in mega haul di Zara o H&M e che porta alta la bandiera della dupe culture, normalizzando l'acquisto della riproduzione a basso costo (e spesso bassa qualità, con alto impatto sull'ambiente) di prodotti di lusso o fascia medio-alta. Questa profonda scissione tra valori professati e comportamento d'acquisto effettivo è una contraddizione che non colpisce solo la Gen Z, ma l'intero sistema. È difficile rimanere fedeli a se stessi in una società iperconsumista governata da una logica di acquisto usa-e-getta, che ci sottopone a una pressione continua. Oltretutto, c'è modo e modo di approcciarsi al fast fashion. L'impatto ambientale di un prodotto è naturalmente ammortizzato dalla sua durata nei nostri armadi. Al di là del suo valore (effettivo e percepito), un capo di Zara può durare anche dieci anni se tenuto con cura ed è ovvio che acquistare fast fashion in un'ottica di conservazione sia già più sostenibile del farlo secondo l'approccio usa-e-getta dello sfoggio e ricambio continuo, che purtroppo è la dinamica istigata dai social.
Certo, comprare "meno e meglio" sarebbe la pratica giusta da adottare e se lo facessimo tutti, ma proprio tutti, nello stesso esatto istante, forse potremmo generare davvero un cambiamento significativo, ma dato che il vero potere in termini di impatto ambientale in fin dei conti resta in mano alle grandi aziende e non all'individuo né a una collettività i cui consumi (per quanto estesi) non potranno mai competere con l'impronta della produzione di massa costantemente in surplus, non è neanche giusto continuare a colpevolizzare il singolo consumatore. E se i conglomerati decideranno finalmente di prestare la giusta attenzione al problema ambientale, qualunque sia il prezzo da pagare (letteralmente), forse è anche giusto fare un passo indietro e pretendere un po' meno come consumatori se il fine ultimo è la salvaguardia del pianeta. Quello che possiamo invece nel quotidiano è cercare di cambiare un po' la mentalità, tornare ad affezionarci a ciò che compriamo, riparare anziché gettare, acquistare capi e accessori che ci rispecchino davvero nell'ottica di tenerli anche tutta la vita, a prescindere da dove li abbiamo comprati.