“Abiti da bambola, per ragazze adulte”, così descrive la moda Lolita Pluna, che incontro in un grigio pomeriggio davanti al centro commerciale Isetan di Shinjuku. E proprio lei sembra, in effetti, una bambola di porcellana, col suo incarnato perfetto, gli occhi grandi e quel portamento decoroso e composto. Modella e micro-influencer, Pluna indossa un maxi fiocco in velluto nero e un lungo abito grigio, con balze quasi ottocentesche sul retro e una silhouette a campana esagerata dall’ampia sottogonna. Descrive il suo stile come un mix di Gothic e Classic Lolita, ma queste etichette non rappresentano altro che due punti cardinali in una mappa eterogenea e potenzialmente infinita di sottogeneri che, insieme, formano il Lolita fashion: una tendenza nata nel Kansai ma fiorita tra i vicoli di Harajuku e Omotesando tra gli Anni 90 e 2000, che ancora oggi rappresenta una delle mode alternative più emblematiche del Giappone. Alternativa sì, perché, nonostante a prima vista si presenti come “un concentrato di fiocchi, merletti, pizzi e abiti sostenuti da sottovesti e crinoline” – come ne parla Hamuka, ballerina di burlesque e content creator, che porta ciglia lunghissime e un look rosa pieno di dolcetti –, questa moda leziosa e ultra-femminile che, in tutte le sue declinazioni si fonda su un principio di cuteness, nasce proprio in reazione alle severe norme legate alla presa di responsabilità, all’età e al genere imposte dalla società giapponese: come rivendicazione della propria femminilità e giovinezza, e insieme forma di evasione in grado di ristrutturare la percezione della realtà creando un microcosmo ideale e perfetto, fatto di abiti bellissimi e tea party.

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Christopher Joseph Argentino
Pluna @pluna_chan

Nel libro The Dictionary of Gothic & Lolita (2024), Mariko Suzuki, editor-in-chief delle riviste fondanti di questa estetica Gothic & Lolita Bible e KERA!, ripercorre la storia del costume alla ricerca delle influenze che, attraverso i secoli, hanno contribuito a plasmare l’immaginario Lolita di oggi. Si parte dal Rococò e dalla pomposa magnificenza di Maria Antonietta, che ha lasciato un’impronta ancora visibile in diverse declinazioni dello stile Lolita – dalle ampie e svolazzanti “maniche da principessa” ai fiocchi decorativi. La cosa interessante è notare come il primo antenato del Lolita fashion sia una moda da adulti che, in un’epoca carente di abbigliamento infantile appropriato, veniva traslata senza grandi alterazioni anche sui bambini, mentre il moderno stile Lolita si riappropria dell’immaginario fanciullesco, partendo proprio da silhouette emblematiche della moda per l’infanzia. La seconda icona del Lolita fashion – la cui presenza aleggia tanto nelle deliziose atmosfere dei tea party quanto nei pattern che animano i co-ord e perfino nei nomi di alcuni brand emblematici – è proprio la bambina per antonomasia: Alice nel Paese delle Meraviglie. Il fiocco tra i capelli, le maniche a sbuffo e soprattutto lo scamiciato (in gergo Lolita, “jumper skirt” o JSK), sfoggiati dal personaggio di Lewis Carroll fin dalle prime illustrazioni dell’Ottocento, sono tutti elementi precursori (e ancora essenziali) di questa estetica.

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Francesca Milano Ferri
Himeragi Hibiki @hi_hibiki

Nel corso dei decenni, poi, le suggestioni destinate a ispirare il Lolita fashion si susseguono e si intersecano con varie fasi di storia del costume: gli abiti fanciulleschi immaginati negli Anni 40 e 50 dal designer e illustratore Nakahara Junichi, considerato una figura fondante del manga shojo (per ragazze); la minigonna di Mary Quant e le “lolita” francesi degli Anni 60 come Jane Birkin e France Gall; le reminiscenze vittoriane ed edoardiane degli abiti folk Anni 70; l’amore a prima vista del Giappone per le collezioni di Vivienne Westwood, col suo mix di elementi punk, vittoriani e tipicamente British. Tutti hanno concorso a plasmare l’idea multisfaccettata della femminilità espressa dalla moda Lolita.

In Giappone, la necessità di un nuovo stile che non fosse fatto per compiacere la male gaze, ma semplicemente per soddisfare la propria concezione di femminilità e riappropriarsi di un’estetica naïf, romantica, innocente, si inizia ad avvertire già negli Anni 70 con l’avvento dello stile Otome, una tendenza fashion meno elaborata che però già anticipa la componente kawaii della moda Lolita. Brand come MILK, PINK HOUSE e Angelic Pretty (poi divenuto un nome essenziale nel vocabolario Lolita) si fanno portavoce di questo movimento che, pian piano, si sviluppa nel più ricercato doll kei (ovvero “estetica da bambola”). Negli Anni 80, rincara la dose una nuova ondata di brand ultra-femminili e romantici passati alla storia come DC (“Designer & Character”) brand e si arriva così agli Anni 90, quando il termine Lolita inizia ad essere applicato a una moda con tutti i crismi e un'identità ben distinta. Una celebrity che si faceva chiamare Lolita Robin apparve in TV sfoggiando un abito del brand MAID LANE REVUE, di Ikuko Utsunomiya, tra i tanti a promuovere un look romantico con richiami al mondo dell’infanzia, con abiti a quadretti rossi, animali di pezza portati come accessori, grandi fiocchi e crinolina. Tuttavia, gli stessi brand che sulle prime avevano marciato sul successo del neonato “abbigliamento Lolita” fecero presto marcia indietro per timore di un’associazione errata con le possibili controversie legate al termine “Lolita” nella sua accezione più negativa, popolarizzata dall’omonimo romanzo di Vladimir Nabokov del 1955, che lo riconduce a una sfera ammiccante e sensuale. Tuttavia, rispetto a questa interpretazione il Lolita fashion giapponese si pone direttamente agli antipodi. Come spiega The Dictionary of Gothic & Lolita, infatti: “In contrapposizione rispetto all’immagine della lolita generata da una prospettiva maschile, la moda giapponese Lolita si impone come un genere puramente estetico che si riappropria della prospettiva femminile”. E, finalmente, negli Anni 90 riesce a imporsi al di sopra di qualsiasi controversia.

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Christopher Joseph Argentino
Hamuka @hamukahamu

Il 1998 è considerato un anno di svolta: l’allora chitarrista della band visual kei Malice Maizer, Mana (o meglio, Mana-sama), per descrivere il suo look androgino, intriso di una femminilità eccentrica e oscura, conia infatti il termine “Gothic Lolita” e decide di fondare, l’anno dopo, a Osaka, il suo brand Moi-me-Moitié. Così lontana dall’immagine della “bambina” in senso classico da liberare l’espressione dallo stigma, la Lolita Goth tinge tutto di nero e, a pizzi, nastri, balze e decorazioni romantiche, accosta elementi storici, ripresi dagli abiti di corte del Settecento e Ottocento europeo, riferimenti a cattedrali gotiche e cimiteri, suggestioni vampiresche e reminiscenze vittoriane. È qualcosa di così nuovo da attraversare rapidamente il Giappone e, dal suo luogo di nascita nel Kansai, si sposta rapidamente a Shibuya, Tokyo, dove fiorisce nell’epicentro dello street fashion alternativo degli Anni 90 e 2000 rappresentato da Harajuku. Il seguitissimo magazine mensile di moda locale KERA! (noto anche come KEROUAC, titolo ispirato all’omonimo autore americano) pubblica per primo un approfondimento sul Gothic Lolita e fa tanto successo da ispirare la nascita, nel 2001, di una rivista spin-off interamente dedicata a questo stile: Gothic & Lolita Bible, che raccoglie subito una folta schiera di adepti pronti a seguire alla lettera i suoi consigli di stile. Collaboratori fissi: Mana-sama e l’illustratrice Mitsukazu Mihara, due nomi e una garanzia. Non solo, è proprio tra le pagine di KERA! e Goth Loli Bible che fa la sua comparsa la modella Aoki Misako, che subito diventa il volto della moda Lolita ispirando migliaia di adolescenti, tanto da venire eletta Kawaii Ambassador dal Ministro degli Affari Esteri nel 2009 e, nel 2013, presidente dell’Associazione Lolita del Giappone – di cui è tuttora a capo.

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Francesca Milano Ferri
Pluna @pluna_chan

Tra gli Anni 90 e i primi Anni 2000, l’estetica Lolita domina anche la cultura pop: mangaka come Ai Yazawa e Maki Kusumoto esplorano le declinazioni più alternative, proponendo un mix di estetica punk rock, grunge, dark; la serie anime Rozen Maiden fa sognare con i suoi look da bambola; il film Shimotsuma Monogatari (Kamikaze Girls) del 2004, porta sul grande schermo una Lolita affascinata dal Rococò. Le stesse Pluna e Hamuka citano come primo contatto con questo mondo proprio Rozen Maiden, che entrambe hanno scoperto alle medie, mentre la giovane designer Himeragi Hibiki, Punk Lolita che con Morpho, il suo brand tutto artigianale, mira a ridefinire l’estetica Lolita in senso contemporaneo, racconta di essere rimasta folgorata dallo stile Lolita in sesta elementare grazie a KERA! e Goth Loli Bible, per poi avvicinarsi anche ai celebri manga Paradise Kiss e Nana. Se però, per la maggior parte del tempo, il mondo Lolita sembrava muoversi in una realtà parallela e inaccessibile (per la serie “troppo bello per essere vero”), a ispirare migliaia di adolescenti e giovani adulte nella vita reale ci ha pensato proprio Aoki Misako: una ragazza come loro, calata in abiti elaborati e deliziosi, che nel corso dei decenni ha posto le basi per le regole che oggi definiscono l’intera community – per esempio, niente minigonne, lunghezze dal ginocchio in giù, niente spalle scoperte.

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Christopher Joseph Argentino
Hamuka @Hamukahamu

E arriviamo così al Lolita fashion di oggi: una sottocultura composita che parte da elementi naïf, vittoriani, Rococò (e molto altro) per poi frammentarsi in una miriade di sottogeneri, di cui tra i più importanti spiccano Classic Lolita, che esprime un’eleganza più tradizionale, spesso con richiami al mondo accademico (pensate a cartelle in pelle, orologi da taschino, accessori che ricordano libri antichi); Gothic Lolita, che predilige il nero e affonda le radici nel macabro, con borse a forma di bara richiami all’architettura gotica; e Sweet Lolita, tutto a tinte pastello, animato da tazzine da tè stampate e orsacchiotti di peluche. Ma esistono anche Shiroi Lolita (con look total white), Wa Lolita (che incorpora elementi dell’abbigliamento giapponese tradizionale, come il kimono), Hime Lolita (con abiti ancora più sfarzosi, da vera principessa) – la lista continua.

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Christopher Joseph Argentino
Himeragi Hibiki @hi_hibiki

Ma, oltre ogni sottogenere e denominazione, come dicevamo, al centro del Lolita fashion c’è il “fattore kawaii”: qualunque sia il proprio gusto, il risultato finale deve essere adorabile. E cosa c’è di più adorabile di un Tea Party, l’evento per antonomasia nell’universo Lolita, l’occasione perfetta per ritrovarsi insieme in un café carino, sorseggiare tè da tazzine di porcellana a fiorellini e apprezzare la cura maniacale dietro ogni singolo dettaglio che compone gli outfit? In un mondo in cui le sottoculture sono in via d’estinzione, è stupendo osservare una moda che ancora aggrega e coinvolge, invogliando a curare i propri look, coordinarli, accessoriarli e condividere la gioia che ne deriva con persone che vivono lo stile nello stesso modo.

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Francesca Milano Ferri
Pluna @pluna_chan

Sui brand più importanti, Pluna, Hibiki e Hamuka non hanno dubbi: Baby, The Stars Shine Bright e Angelic Pretty. Entrambi si caratterizzano per l’estetica Sweet Lolita, ma sono ugualmente apprezzati e considerati lo standard anche da chi si rispecchia in altri sottogeneri – Baby, in particolare, produce anche design Gothic e Punk Lolita con il sotto-brand Alice and The Pirates. Per lo stile EGL (Elegant Gothic Lolita) creato da Mana-sama, Moi-me-Moitié rimane il marchio d’elezione, accompagnato anche da metamorphose temps de fille e Atelier Pierrot – entrambi punto di riferimento anche per il genere Classic Lolita. Per farsi un’idea di brand, accessori e silhouette essenziali, è sufficiente recarsi al piano interrato del centro commerciale LaForet: ultimo grande avamposto della moda Lolita in una Harajuku che nel corso del tempo ha visto molte sottoculture soffocare sotto orde di turisti e nuove tendenze orientate verso uno stile più street casual.

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Christopher Joseph Argentino
Himeragi Hibiki nell’atelier del suo brand Morpho

Ogni stile, per potersi definire tale, è soggetto a regole ben precise, rendendo spesso l’aderenza al gruppo un po’ intimidatoria per i neofiti, ma c’è anche chi le regole le apprende solo per poi sovvertirle: come Hibiki, che si presenta con un JSK nero cucito da lei, cappello di peluche con lunghe orecchie che le ricadono sulle spalle, giacca di pelle e borsa in pizzo a forma di coniglio, che ha fondato il suo brand Morpho proprio per esprimere una visione più libera – nonché per svincolare l’estetica Lolita dall’associazione con la cultura otaku (nerd), facendo leva solo sulla componente fashion. “Lo stile Punk Lolita viene comunemente associato a gioielli in argento, teschi e crocifissi” spiega Hibiki “ma, per me, punk significa innanzitutto libertà” e così i suoi design rielaborano le silhouette emblematiche del genere in chiave attuale, incorporando le ultime tendenze. Anche Hamuka si racconta come una persona molto eclettica, che ama giocare con stili diversi, dal Lolita fashion allo stile Gyaru, passando per Rococò e Glam Rock, mentre Pluna adora sperimentare anche combinazioni con capi vintage, dimostrando come non esistano veri e propri assiomi assoluti, ma più che altro linee guida entro le quali trovare il modo più autentico di esprimere sé stessi.

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Francesca Milano Ferri
Hamuka @hamukahamu

Per concludere, è importante menzionare che la moda Lolita, dalla sua nascita, si è estesa ben oltre i confini del Giappone e, anche in Italia, esiste una community EGL viva, che promuove eventi e meet-up. A Milano, per esempio, al Tempio del Futuro Perduto, la domenica si tiene il mercatino Taste of Oriente dove è possibile trovare stand di abiti Lolita, mentre a Brescia si può partecipare ad autentici Lolita Tea Party organizzati da Il Palazzo delle Bambole – il prossimo è già in programma per Aprile 2025.

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