Di fronte agli ultimi femminicidi, quelli di Sara Campanella, la studentessa di Misilmeri uccisa il 31 marzo a Messina dal collega di università e quello di Ilaria Sula, 22 anni, originaria di Terni, studentessa di statistica all’università La Sapienza di Roma uccisa dall’ex fidanzato studente di architettura, in redazione è calato il silenzio, poi ci siamo fatte due domande. Erano queste: perché Sara, Ilaria e prima di loro Giulia e tante altre non hanno mai denunciato a voce alta la situazione che è poi degenerata nel loro femminicidio? Ricordiamoci che sono state 113 le donne uccise nel 2024, di cui 99 in ambito familiare o affettivo, secondo i dati della polizia criminale sul contrasto alla violenza di genere. Perché si sono limitate a confidarsi con le amiche?

Abbiamo deciso di girare questi due interrogativi a cinque persone esperte, che per mestiere si occupano di violenza sulle donne ma con approcci diversi: Cristina Carelli, coordinatrice generale della Casa delle donne maltrattate di Milano e presidente di D.i.Re, Donne in Rete contro la violenza; Anna Nardoni, psicologa e psicoterapeuta, supervisore EMDR con sede a Parma; Carla Maria Xella, presidente del Cipm Lazio, Centro italiano per la promozione della mediazione, una casa dove si rieducano gli uomini che maltrattano le donne; F.M., poliziotto che si occupa di raccogliere le denunce in questura che ci ha chiesto di rimanere nell’anonimato e Daniela Missaglia, avvocato matrimonialista e divorzista di Milano, specializzata in diritto di famiglia, diritto civile e della tutela dei minori. Le loro risposte, per nulla scontate, ci hanno aperto gli occhi e sgombrato la mente dai pregiudizi, permettendoci un bagno di realtà che consigliamo a tutti e a tutte.

Cristina Carelli, coordinatrice generale di CADMI, la Casa delle donne maltrattate di Milano
Perché le donne non denunciano i loro compagni violenti?
Le più giovani sono molto informate e sanno bene cosa accade quando le altre donne chiedono aiuto e subiscono esperienze di vittimizzazione: sanno, soprattutto tramite le condivisioni dei social, che se affronteranno un processo per aver subito maltrattamenti di genere potrebbero vivere un’esperienza complicata: potranno trovarsi davanti a un/una giudice che non riconoscerà le violenze subite o che le riterrà in parte responsabile. Questo, inoltre, potrà accadere nelle aule dei tribunali ma anche con le forze dell’ordine, gli assistenti sociali, il personale del pronto soccorso. C’è poi un altro motivo: la violenza subita porta a essere sfiduciate e scoraggiate rispetto agli altri, frutto anche dell’operazione che compie il maltrattante che continua a farti credere che “nessuno ti crederà, è tutto normale e sei tu che sei sbagliata”. Ci portiamo dietro un’eredità storica pesante, in quanto donne ci dobbiamo giustificare, dobbiamo limitare i nostri comportamenti, fare attenzione a come ci vestiamo e al linguaggio che usiamo, cosa che non accade per il maschile. Lo vediamo in modo molto chiaro nell’atteggiamento delle madri delle ragazze che incontriamo nei nostri centri: ci chiedono sempre come possono aiutare le loro figlie a difendersi, mai come educare i ragazzi al rispetto dell’altro, a vivere relazioni sane. E poi c’è un ultimo motivo che non aiuta a denunciare, la paura del giudizio, essere definite e considerate dalla società come vittime, un peso enorme sulle loro spalle.

Nei recenti casi di femminicidio, le ragazze sono giovani, universitarie, hanno una rete di amiche, c’è qualche riflessione in più sul loro silenzio?
Le più giovani vivono come tutta la loro generazione sui social dove è normalizzata una sorta di controllo costante sulla vita dell’altro, cosa fa, dov’è, chi incontra. Questo fa sì che ti accorgi in ritardo se c’è qualcosa che non va e che si è superato un limite. Nelle scuole dove organizziamo numerosi incontri, le ragazze ci dicono che è normale che il fidanzatino chieda loro le password del cellulare e possa avere un controllo sociale pervasivo sulla loro vita. Sono più che convinte di non frequentare contesti potenzialmente pericolosi.

Cosa invece deve far allertare?
Mai trascurare i segnali, soprattutto quelli del controllo esercitato dall’altra persona su di noi. Se è troppo presente o limita la nostra libertà, dobbiamo alzare la guardia, anche solo per ragionare sui confini di una giusta relazione e scongiurare il pericolo di una escalation che potrebbe inasprirsi fino a trasformarsi in violenza e in femminicidio.

Se ci sono dubbi e si desidera un confronto?
Rivolgersi a un centro antiviolenza dove si trova ascolto e non giudizio. È un passo più facile da compiere rispetto a sporgere una denuncia che attiva immediate azioni di rivalsa sul maltrattante e implica la messa in discussione di una figura a cui si è legati affettivamente. Nei centri antiviolenza si accompagnano le donne a una presa di distanza dalla violenza stessa analizzando ed elaborando la situazione per obiettivi graduali; il primo è quello di riprendere in mano il potere sulla propria vita e quindi anche la decisione se denunciare o no.

Anna Nardoni, psicologa e psicoterapeuta, supervisore EMDR con sede a Parma
Dottoressa Nardoni, per quella che è la sua esperienza è vero che le donne vittime di stalking faticano a denunciare?
Le donne che subiscono stalking o violenze di genere non tacciono “sempre”. Parlano, ma spesso non con le forze dell’ordine. Parlano con le amiche, con le sorelle, a volte con le madri. Raccontano pezzi della loro storia violenta. Provano a farsi capire tra le righe perché molto spesso sono dominate dalla paura, dalla vergogna e da un senso di impotenza che le porta a pensare che né loro né altri possano contrastare l’uomo violento. La mancata denuncia non accade, quindi, perché ignorino di avere il diritto di farlo, ma perché tra il sapere e il fare c’è di mezzo un oceano di emozioni complesse e un grande senso di solitudine. Dall’altra parte, lo stalker non è sempre un “mostro” facilmente identificabile. È spesso un uomo fragile, frustrato, con un’identità che si regge sull’illusione del controllo. Quando percepisce la partner come più forte, libera, autonoma, nasce in lui un senso di inferiorità insopportabile. Da lì scatta la miccia: non può perderla, non può essere lasciato. Non può essere “sconfitto”.

Qual è la variabile che pesa di più, quando si decide di rinunciare a denunciare?
Il fatto che denunciare significhi “rompere il patto del silenzio”. Per farlo sono necessarie la certezza di essere credute e protette. Troppo spesso, le donne che decidono di denunciare trovano un sistema impreparato, lento, persino ostile. Frasi come “forse stai esagerando” o “servono più prove” diventano un secondo trauma. La violenza, invece, non rallenta: anzi, spesso si intensifica. Così, quel passo che sembra logico, la denuncia, diventa per molte un salto nel vuoto. Denunciare non è solo un atto legale: è un atto psicologico che implica non solo la presa di coscienza del proprio dolore e la volontà di riprendere le redini della propria vita, ma anche il riconoscersi come vittima, perché la violenza, per le donne, non è un destino. Denunciare è un atto di coraggio che rompe l’equilibrio, anche se doloroso, della rimozione, della negazione o minimizzazione.

Che cosa aiuterebbe?
Serve un sistema che protegga, che accolga senza giudicare. Ma serve anche una trasformazione culturale: dobbiamo smettere di chiederci “perché non denuncia?” e iniziare a chiederci “cosa possiamo fare per farla sentire al sicuro, creduta, libera?”. Serve una formazione approfondita e diffusa per le forze dell’ordine, i magistrati, gli avvocati, il personale sanitario e scolastico. Non basta applicare la legge: bisogna saper leggere i segnali, riconoscere la paura che non urla, la rabbia che tace. Una donna che denuncia lo stalking sta già facendo un atto di coraggio estremo: se trova davanti un muro, non tornerà a bussare. Serve che le misure cautelari, come il divieto di avvicinamento, siano applicate subito, monitorate e accompagnate da supporto concreto, per esempio un cambio di domicilio, protezione digitale, allerta delle reti sociali. Le campagne di sensibilizzazione, a scuola e sui media, devono parlare anche ai ragazzi: educare al rispetto, all’affettività sana, alla gestione del rifiuto. Gli sportelli antiviolenza devono essere diffusi, conosciuti e raggiungibili anche in modo discreto. Infine, ogni donna che denuncia dovrebbe avere accesso gratuito e tempestivo a un supporto psicologico, anche attraverso percorsi psicoterapeutici specifici, come la terapia EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), un approccio psicoterapeutico validato scientificamente per il trattamento dei traumi.

Carla Maria Xella, presidente del CIPM Lazio APS, Associazione che si occupa di prevenzione e trattamento della violenza di genere attraverso l’intervento con gli autori
Dottoressa Xella, quali strumenti abbiamo oggi a disposizione per prevenire i femminicidi?
Come abbiamo purtroppo visto, le leggi sempre più severe non sono servite a mitigare il fenomeno del femminicidio. È più che mai necessario puntare sulla prevenzione oltre che sulla sanzione. Uno strumento di prevenzione efficace, per esempio, è l’ammonimento del Questore, che intercetta le condotte violente alle loro prime manifestazioni. Con la Questura di Roma e il Cipm è attivo il Protocollo Zeus: gli ammoniti vengono invitati a rivolgersi al nostro Centro, per una serie di colloqui volti alla responsabilizzazione. Questo tipo di intervento precoce ottiene un abbassamento molto significativo del tasso di recidiva. Ma, ancor prima, è necessaria un’informazione più efficace. Gli stalker devono essere segnalati dalle loro vittime, che devono avere la consapevolezza di star subendo un reale, pericoloso sopruso. Come abbiamo visto nel caso di Giulia Cecchettin e di Sara Campanella, il fatto che Giulia e Sara non avessero manifestato paura dei loro persecutori, è costato loro la vita. Eppure il femminicidio è quasi sempre preceduto dallo stalking: la rabbia per il rifiuto, che ci sia stata una relazione o che questa sia stata solo desiderata, è la stessa. E può essere molto pericolosa.

Gli stalker sono diversi tra loro, e diversa è la loro pericolosità: quali sono gli indizi che possono creare nella vittima un allarme che la induca a chiedere aiuto?
Innanzitutto, la durata e l’insistenza della persecuzione. Un corteggiatore molesto non è necessariamente uno stalker: a un chiaro “no”, magari ripetuto una seconda volta, abbandona l’obiettivo. Lo stalker potenzialmente pericoloso, invece, continua ad agire e i suoi messaggi sono sempre più frequenti. E violenti. Dalle lusinghe alle minacce, fino alla minaccia di uccidersi o di uccidere l’altra persona. Ci sono anche le convinzioni deliranti, come quella di avere una misteriosa ed esclusiva connessione con la vittima. O addirittura l’idea che la vittima, in realtà, apprezzi quelle attenzioni. Lo stalker pericoloso può essere una persona socialmente isolata, che non confronta con altri le sue convinzioni distorte. Altro segnale di allarme è anche il fatto di cominciare a seguire la vittima: lo stalker conosce i suoi spostamenti, compare all’improvviso nei luoghi che frequenta. Anche il mancato rispetto delle restrizioni, come il divieto di avvicinamento, sono un grave segnale di pericolo. Non commettiamo però l’errore di colpevolizzare le vittime: essere fiduciose, come Sara, o generose, come Giulia, non è una colpa, è una qualità. Bisogna, però, saper distinguere chi può approfittarne.

F.M., poliziotto
Perché le donne non denunciano?
Io credo che chi non denuncia ha la sensazione che farlo non cambierebbe niente, che si andrebbe solo a finire in un ginepraio dove non ci si sente tutelati. Ma questo non dipende dalle forze dell’ordine: il problema è che è un fenomeno culturale, questo della violenza contro le donne, e quando diventa crimine abbiamo già perso la possibilità di risolverlo. Ma c’è altro. Per quella che è la mia esperienza, esistono svariate denunce fatte per situazioni non gravi, ma che vanno comunque a finire nello stesso sistema di quelle gravi. Quindi l’operatore di polizia, nel momento in cui va ad affrontare casi di questo genere, deve essere molto preparato, e non dal punto di vista delle tecniche operative, ma da quello di capacità di analisi di uno scenario, che puoi acquisire solo con una scuola o un’università.

Quindi paradossalmente c’è sia un problema di mancanza che di eccesso di denunce?
Penso di sì. Ora, io non so dare una percentuale, ma so che nei miei tanti anni di lavoro ho visto un numero rilevante di donne denunciare il partner perché, per esempio, erano nella fase del divorzio e volevano l’affidamento dei figli, o ottenere gli alimenti, e anche di questo occorre parlare di più. Perché poi a pagarla è la donna che, invece, ha dei problemi urgenti e oggettivi. Occorre sapere che col codice rosso, nel momento in cui hai una denuncia, si attivano delle procedure che devi assolutamente affrontare. Tu operatore di polizia, anche se con un po’ di esperienza percepisci che c’è qualcosa d’altro sotto, devi andare ad ascoltare il vicinato, fare degli accertamenti, e quello è tempo tolto a una persona che ha veramente bisogno.

Perciò che si fa?
O si fa una task force investendo milioni di euro per un ufficio che si occupi solo di violenza di genere, dove si mettono persone altamente preparate, ma questo è una scelta politica, o si lavora di più e meglio sulla comunicazione e la divulgazione che anche la polizia col lavoro di prossimità può fare. Tenendo conto che sono sistemi altamente complessi, che ogni singolo caso è molto complesso. E non se ne può parlare in un talk show. Io sono molto preso da questa cosa, quindi ne parlo con molta veemenza, perché secondo me non si sta facendo nulla per risolvere il problema, e non so quale sia la soluzione, ma sicuramente c’è gente preparata che può metterci davanti delle alternative.

Ma secondo lei un Filippo Turetta, per esempio, poteva essere fermato prima?
Secondo me sì, ma non dalle forze dell’ordine. Se posso permettermi di dare una valutazione personale, se ci sono spazi per trovare, diciamo, dei freni a eventi di questo genere, questi sono le scuole e i luoghi d’aggregazione. Che stanno sparendo. Fino a 15 anni fa, i ragazzi andavano in discoteca, che è un luogo dove ci sono le telecamere e i buttafuori, quindi è un posto dove hai la possibilità, dovesse succedere qualcosa, di capire come sono andati fatti. Oggi che i ragazzi non vanno più in discoteca, ma si fanno la festa in casa, non c’è più un sistema di controllo che ci deve essere a priori. Nei luoghi di aggregazione, sicuramente puoi avere la possibilità di percepire i campanelli d’allarme e, nel caso, d’intervenire. Ma se la gente non ha un posto dove andare e si chiude dentro la macchina o in casa, là dentro è la terra di nessuno. Quindi, secondo me, si può fare sempre qualcosa di più, qualcosa di meglio. Però il grande errore è pensare che siano le "cose" dell’ordine. Quando si attiva la denuncia, hai già perso la partita.

Daniela Missaglia, avvocato matrimonialista e divorzista, specializzata in diritto di famiglia, diritto civile e della tutela dei minori
Quando le donne arrivano nel suo studio e le parlano di episodi di violenza fisica, psicologica, verbale, economica in che condizioni sono?
Non sempre sono consapevoli della situazione, spesso sono reticenti, molte volte sono accompagnate da un’amica o un familiare che le sostiene, ma fanno fatica a parlare, in alcuni casi si vergognano. Chi esercita la violenza di qualsiasi tipo su di loro ha agito comportamenti up and down, passando dalle aggressioni fisiche al pianto e di conseguenza le vittime sono in uno stato di sottomissione. Talvolta hanno introiettato la condizione di sentirsi in qualche modo “la prescelta” e si preoccupano più del maltrattante che di loro stesse.

Cosa suggerisce in questi casi?
Propongo supporti. È più facile quando la donna ha dei figli perché riesce a spostare più facilmente la situazione di rischio e pericolo di vita su di loro piuttosto che su di sé. Nel rispetto di ogni storia, ognuna diversa dall’altra, quello che cerco di fare fin da subito, soprattutto nei casi di violenza fisica, è mandare fuori casa la persona violenta, piuttosto che spostare la donna in una casa di comunità. Vedo negli sguardi delle donne un conflitto interno lacerante: in quei momenti devono decidere di cambiare radicalmente la loro vita, credere nella giustizia e nel team di supporto per affrontare l’iter giudiziario e il giudizio sociale.

Perché alcune/molte donne non voglio denunciare?
È anche un problema culturale e poi spesso manca la consapevolezza che quei comportamenti maltrattanti siano illegittimi e appartengano a una cultura patriarcale e misogina che deve essere modificata. Io sono dell’avviso che un comportamento “strano” vada subito attenzionato: un appostamento, una minaccia più o meno velata non deve passare sottotraccia, tanto meno la violenza fisica. Io dico meglio una denuncia in più che una in meno.

Secondo lei, in Italia abbiamo una legislazione che aiuta le donne che subiscono la violenza?
Sì, abbiamo una buona quantità di leggi che, nel tempo, sono state ben implementate. Non dobbiamo però dimenticarci che nei femminicidi l’aggravio della pena non è un deterrente per chi agisce la violenza. Il problema vero è che non c’è stato un adeguato aumento del numero degli agenti proposti al rispetto di quelle leggi: se non ci sono stanziamenti economici adeguati siamo punto e a capo. Inoltre ci dovrebbe essere un maggior raccordo tra polizia e pubblico ministero, tra pubblico ministero e il profilo civilistico, se parte una separazione. Se poi c'è il tema dell’affidamento dei figli minori si apre un procedimento presso il Tribunale dei minori. Per la donna iniziano due anni di grandi tribolazioni.

Un consiglio alle donne che subiscono violenza?
Ovviamente muoversi con urgenza e denunciare nel momento in cui succede l’episodio della violenza. In generale, però, sarebbe meglio muoversi prima dell'emergenza, andando dall’avvocato familiarista per mettere a punto una strategia intelligente.

In 35 anni di professione cosa è cambiato?
Quando nelle separazioni ci sono i conflitti, sono molto più accesi di prima. Poi è cambiata la mentalità delle donne: a parte sacche di resistenza, sono in genere più autonome e indipendenti. •