Parthenope sorge dalle acque, figlia del mare, voluttuosa ninfa che si distende al sole e si nasconde dietro veli fruscianti, regina di una villa che si affaccia sul mare di Napoli, sovrana indiscussa di un vasto microcosmo domestico che sembra farsi bastare se stesso e somiglia pertanto più a un castello d’altri tempi che a una casa. Dalle sue spesse mura il resto del mondo giunge remoto, anzi, sembra non esistere affatto. Parthenope non esce mai, non va a scuola, non ha amiche, si limita a trastullare diligentemente la propria bellezza. Il letto in cui dorme è una carrozza, il suo unico amante è il figlio della governante che la consuma di sguardi adoranti e al quale lei rivolge frasi che dovrebbero suonare conturbanti e che invece sono solo estatiche, ingenue. È il principe Siddharta che del mondo conosce solo le gioie e le ricchezze perché non è mai uscito dal fatiscente palazzo in cui abita.

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PiperFilm.

Dice Paolo Sorrentino che Parthenope, presentato in anteprima mondiale al festival di Cannes e adesso in tutte le sale cinematografiche, parla della giovinezza, di una caratteristica precipua della giovinezza, che è la vertigine dell’abbandono. Eppure per la protagonista dura pochissimo. Nel momento in cui esce dal palazzo e prende contatto con il mondo, il suo sogno di incontestabile purezza si infrange. Basta una rapida trasferta a Capri, una sola notte di casto ardore, al termine della quale Parthenope si scopre non più giovane, non più felice. Ha appena avuto modo di constatare il potere della sua bellezza, gli sguardi degli uomini che incessantemente si posano su di lei, decine di mani che si tendono al suo passaggio. "You can have it all without even ask", le suggerisce Gary Oldman nei panni del celebre scrittore statunitense John Cheever. Parthenope gli crede, per un minuto. Si bea di questo fragile, totalizzante privilegio, si mostra nuda al giardiniere, accetta l’offerta di un picnic sotto le stelle da parte di un ricco miliardario in elicottero, balla a occhi socchiusi, indossa un vestitino di strass che riflette la luce della luna. Poi, l’alba arriva livida e l’illusione, la vertigine, l’irresponsabilità, sempre per citare Sorrentino, scompaiono. Parthenope resta sola. Amaramente aggrappata al ricordo di quelle poche ore notturne, che costituiranno per sempre il suo apice esistenziale, il culmine inconsapevole della sua intera vita, il barlume potenziale di qualcosa che non si consuma, non si realizza, non giunge a compimento. Avrebbe potuto dedicarsi oziosamente alle feste, agli eccessi, alla seduzione fino all’età adulta. Diventare un’attrice di successo, come arditamente le propone un’agente che la nota seduta al tavolo di un ristorante. Essere viziata, vezzeggiata, acclamata. Invece, il suo destino si rivela arido. Le battaglie politiche degli anni Settanta la sfiorano, le passano accanto in un tumulto disordinato, mentre lei appena se ne accorge e piange, costretta in un nero tailleur, dopo essersi fatta accettare la tesi di laurea.

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PiperFilm.

È curioso che il solo elemento a stagliarsi in una sequela altrimenti vana di occasioni perdute, mancate sia lo studio. Parthenope non diventa un’attrice, non calca i palcoscenici, si avvia invece alla carriera universitaria. Insegna. È curioso anche che l’unico rapporto che in qualche modo la consola, la indirizza, la segna nell’accezione positiva del termine sia quello con il suo insegnante, interpretato da Silvio Orlando, docente alla facoltà di Antropologia. Il ritratto di Parthenope, il suo volto pieno, le sue forme floride, che avrebbero potuto rappresentare tutta la baldoria delle gioie effimere, lussuriose, veraci, si trasformano in quello compunto e saggio del dotto.

Si può dunque definire un film sulla giovinezza? Forse, se intendiamo la giovinezza come un prisma più complesso e imprevedibile dei significati stereotipati che normalmente le si attribuiscono. Intorno alla giovinezza gravita l’idea della libertà, della passione, delle linee formali dei confini che si alterano. In questo senso, è giovane chiunque sia compreso tra: chiunque oscilli, chiunque stia in mezzo a due cammini, a due possibilità in divenire. L’infanzia e la maturità, la follia e la ragione, il radicarsi e il separarsi. Sarà stato allora l’incontro con l’antropologia, la ricerca di una definizione che potesse soddisfarla, quel suo "Che cos’è l’antropologia?", il cui rovello assume la valenza di un quesito capitale a rendere giovane Parthenope. Infatti il professore alla fine le risponde: "L’antropologia significa vedere". Vedere, rinunciare allo sguardo offuscato e confuso del puer e anche a quello cinico e abbandonato della senilità si rivela più esaltante del cieco tripudio dei sensi connesso ai primi amori che spesso, come dice a un certo punto la stessa Parthenope, non servono a niente.

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