Io, senza una scadenza chiara e possibilmente vicina nel tempo, non riesco a concludere molto. Il che non è ideale per il mio lavoro, perché che sia scrivere un libro o fare una proposta per un articolo, tutto si basa su una forte motivazione intrinseca, una voce che dentro di te dice sì, questa cosa va proprio detta, e sì, la devi dire proprio tu. Qualche giorno fa parlavo con una mia amica, le ho chiesto se stesse lavorando a un nuovo libro. Lei mi ha detto che tra il lavoro, la bambina, e il fatto che non crede che il mondo abbia tutto questo bisogno di un suo nuovo romanzo, per il momento aveva accantonato la scrittura narrativa.
Gli uomini non si chiedono se a qualcuno interessa quello che hanno da dire, lo dicono e basta. Ma per una volta non voglio parlare degli uomini, voglio parlare di un uomo, il mio eterno fidanzato-a-distanza. Lui scrive articoli accademici, per esempio, sul prezzo del pane a Bordeaux sotto l’occupazione nazista, sulle asimmetrie di informazione e l’ascesa dei populismi, insomma è un economista e il suo lavoro è fare ricerca, ovvero scrivere studi e articoli che nessuno gli ha chiesto, con l’idea di essere il primo a scriverli. Tutta la sua carriera è basata sulla hybris, quella caratteristica che i greci attribuivano agli uomini che si credevano troppo simili agli dei – cioè tutti gli uomini.
Mentre la mia carriera procede a singulti, fra sprazzi di entusiasmo ed estese paludi di autosabotaggio, la sua è costante: continua a lavorare allo stesso modo sia quando ha dei riscontri positivi sia quando arrivano i rifiuti, perché di base né gli uni né gli altri hanno nulla a che fare con il suo diritto a stare a quella scrivania pagato per pensare.
Lavorare vicino a lui, durante la pandemia, mi ha insegnato molto su di me. Mi ha fatto prendere coscienza che questa mia abitudine di second-guessing non è la modalità di lavoro standard. Second-guessing vuol dire ripensarci, cioè dubitare, rianalizzare, le proprie intenzioni, scelte, ogni volta da capo, ogni giorno dover reinventare la ruota: ma sarà il caso che io mi metta a scrivere questa cosa, anche se non la aspetta nessuno? Ci sarà spazio per un ennesimo contributo, oltretutto mio? Mentre noi ci facciamo queste domande, loro fanno, si concentrano sul contenuto, sulla materia, avendo modo di migliorarla, di scontrarsi con i limiti del proprio operato e superarli, cosa che li porta ad avere dei risultati – non vorrei essere blasfema e antifemminista, ma lo diceva anche Simone de Beauvoir – a volte migliori.
Aver bisogno delle scadenze è anche una caratteristica di chi è stato condizionato a pensare di non essere al proprio posto, di essere un po’ impostore. Carrère, nel suo capolavoro Vite che non sono la mia, usa l’espressione «una persona che sa dove sta». Io tuttora non so dove sto: mentre crescevo, l’idea che avevo dei giornalisti era quella dei serissimi, anziani, maschi che firmavano le prime pagine dei quotidiani, che scrivevano in modo asciutto e mai in prima persona. Gli scrittori che leggevo, neanche a parlarne, erano tutti maschi, con le fulgide eccezioni di Saffo e Morante (nei secoli in mezzo: niente). Anche il vostro campo, probabilmente, è costellato di direttori, di manager al maschile. Perfino nella moda, i responsabili di negozio sono spesso uomini.
L’autostima è quindi un costrutto sociale, come aveva intuito e teorizzato Gloria Steinem in Autostima. La rivoluzione parte da te, ripubblicato da Vanda Edizioni. Un libro che non è un manuale di autoaiuto (quelli sull’autostima sono quasi tutti scritti da uomini) ma è più utile di qualsiasi formula, perché racconta le storie delle nostre rinunce, le imprese che non compiamo perché non ci sentiamo all’altezza. È un processo lungo e difficile, ricostruire la nostra autostima. Per questo sono grata a chi mi dà delle scadenze, chi chiede un mio intervento (e a mia volta preferisco chiedere contributi a esperte, donne). Perché è come dire: questa cosa serve, e serve che la faccia tu. Puoi lasciare da parte tutto il second-guessing e finalmente metterti al lavoro.